I Vostri Ricordi

U scannu e Teresa

U scannu e Teresa

di Margherita Astorino

 Negli anni cinquanta, cui sono legati i miei ricordi di ragazza, nell’immediato dopoguerra, l’acqua era un bene prezioso. Poche erano le abitazioni che erano provviste di quella corrente, per cui l’uso era riservato allo stretto necessario. La cultura del bagno o della doccia quotidiana doveva attendere ancora alcuni decenni.
Capitava pertanto che, nel tempo, la sovrapposizione di diversi effluvi impregnasse le vesti di molti, creando quasi un marchio d’appartenenza.
Ma era la normalità dei tempi …
 Quella di Teresa, no! Esulava già negativamente da questa normalità, tanto che la gente del paese affermava, malignamente ma non tanto, che l’aveva lavata solo la “mammana” quando era venuta al mondo.
 A chi gliene chiedeva ragione, non rispondeva, aggrottava la fronte e si chiudeva in un cupo mutismo che lasciava trasparire motivazioni più complesse: un’intima ribellione, frutto di fantasmi che lei stessa non riusciva a governare.
 Col suo linguaggio primitivo ed essenziale comunicava poco o niente di se stessa e se anche avesse saputo, non c’era da dire granché.
La sua vita non s’incrociava con quella degli altri ché, già carica del proprio bagaglio di miseria, non poteva o non aveva voglia di raccogliere le pene altrui.
Da quando, da ragazza, era rimasta orfana di entrambi i genitori, nessuno si era più preso cura di lei.
 I lontani parenti che stentavano a mettere un piatto di minestra sulla loro tavola non pensarono mai di condividerlo con lei; perciò era rimasta sola in quel tugurio, dal tetto sconnesso, in fondo a “ra vinedda” ove d’inverno persino il vento e la pioggia trovavano il loro estremo rifugio.
Una porta sgangherata, abitualmente aperta, portava in un unico abitacolo ove l’attendeva al suo rientro il fuligginoso focolare sempre spento e, per la legge di solidarietà che accomuna i reietti, qualche gatto più disperato di lei.
 Un mezzo tavolo addossato al muro con poche stoviglie sberciate ed un giaciglio di foglie di pannocchie, con qualche  sdrucita coperta militare, completavano gli arredi della misera casa.
 In un angolo, un vaso da notte segnalava prepotentemente la sua presenza in attesa di essere svuotato, ma tanto lei non ci faceva più caso; lì non ci stava quasi mai, girava per il paese, come un gatto randagio in cerca di cibo e caldo presso qualche famiglia caritatevole.
 Si era lasciata andare, forse sotto il colpo dell’ingiusto abbandono che la vita, troppo presto, così crudelmente le aveva inferto.
Gli occhi lattiginosi, che accusavano la sua quasi cecità, la rendevano inconsapevole e la preservavano della visione della propria immagine.
 Ormai i suoi capelli tramutatasi in un lercio e stopposo groviglio erano totalmente governati dai pidocchi. Li nascondeva, sia d’inverno che d’estate, con lo stesso fazzoletto annodato strettamente sotto il mento, le cui cocche, adibite a varie funzioni, si portavano verso il naso, gli occhi o la bocca, secondo le necessità.
Le vesti cenciose e maleodoranti allertavano il passante della sua presenza dando  modo ai più di evitarla o di prenderne le distanze senza indulgenza alcuna.
 Pure i malanni la evitavano: mai una febbre, un raffreddore, un mal di testa; eppure quell’oscuro abitacolo non la proteggeva certo dalle intemperie che, anzi, accoglieva generosamente d’inverno dagli infissi sconnessi e fatiscenti.
Usciva d’inverno per ritemprarsi al calore del camino di qualche famiglia, ove asciugava quelle sottane fradice di pioggia e non solo …
 A casa nostra arrivava abitualmente nel tardo pomeriggio e dopo un fuggi fuggi generale per le varie direzioni  della casa, mia nonna con cristiana accoglienza la faceva sedere su uno scanno, riservato solo a lei. Davanti al focolare della cucina, concedendole qualche briciola d’affetto, le poneva sulle gambe un piatto caldo di buon cibo avanzato.
 Io osservavo a debita distanza la scena silenziosa. Si sentivano solo il crepitio della fiamma ed il ticchettio incerto della forchetta nel piatto in cerca del boccone, che dopo una sommaria masticazione gengivale andava a colmare i vuoti  gastrici della giornata.
 Quando non si faceva viva per qualche giorno, mia nonna preparava “il piatto” e glielo mandava; a volte lei non c’era, aveva fatto altri “giri”, come lei diceva nel suo linguaggio primitivo, ma tanto la porta era sempre aperta e glielo si lasciava su quel mezzo tavolo. Chissà, forse l’avrebbe condiviso, per quella solidarietà che sempre accumuna i randagi, con qualche ospite abusivo a quattro zampe.
 Una mattina i vicini non la videro uscire per i soliti giri; un gatto dietro la porta reclamava o piangeva la sua compagna. La trovarono addormentata di quel sonno senza risveglio. Aveva messo fine alla sua protesta. L’ultimo volo dell’anima l’aveva liberata di quel randagismo ed affidata, forse, a quell’abbraccio materno, che in vita nessuno aveva mai osato darle.
 Delle mani pietose la liberarono di quegli stracci luridi, le rasarono il capo, la lavarono, per poi rivestirla in modo che davanti a Dio si potesse presentare con quella dignità che la vita le aveva negato. Pochi i convenuti, non lasciava affranti parenti o amici
 Nessuno ha mai saputo dove fosse la sua tomba, ma ciò non aveva importanza, tanto un fiore nessuno glielo avrebbe mai portato, nemmeno quei lontanissimi parenti che si fecero vivi per l’eredità del tugurio.
 
… ricordi cirotani