Mestieri

u Trappitu, il Frantoio

u Trappitu, il Frantoio

(a chiusa, a gabbedda, u trappitu)

 
(di Saverio De Bartolo)
 
L'ogghju, l'olio.
L'olio è uno dei prodotti tipici dell'agricoltura cirotana. La proprietà degli oliveti in passato era di poche famiglie facoltose, poche erano le proprietà di piccoli coltivatori. Oggi la situazione è cambiata: si trovano oliveti di proprietà privata di una certa estensione che producono e vendono anche olio biologico.
Era usanza allora e forse anche oggi, che ogni famiglia contadina si facesse la riserva dell'olio per tutto l'anno e per questo si attrezzava con la giara in casa collocata in un posto fresco, al riparo.
 
Diamo una breve descrizione di quelle cose che si chiamano: a chiusa, a gabbedda, u trappitu.
 
A chiusa, l’oliveto.
Il paese è letteralmente circondato dagli oliveti, che si trovano in pianura, lungo i fianchi dei colli e addirittura sugli strapiombi. L’oliveto, a chiusa, è un appezzamento di terreno coltivato esclusivamente ad olivo.
 
Rimunnari
Gli olivi vengono periodicamente sottoposti alla rimunna, la rimonda, la potatura degli olivi. Rimunnari, fare la rimonda, era un mestiere di pochi, in genere erano pastori abituati a frequentare gli oliveti con le greggi al pascolo. L’obiettivo era quello di favorire la produzione delle olive a scapito dell’espansione dei rami e del fogliame. Il legno d'olivo è molto duro e resistente e viene utilizzato in vari modi.
 
Arrampari.
La cura dell’oliveto oltre all’uso di prodotti contro i parassiti prevede la ripulita del terreno sotto gli ulivi. Questa fase è detta arrampari.
 
La raccolta
La raccolta delle olive negli oliveti delle famiglie facoltose, veniva fatta da squadre di raccoglitrici che venivano da paesi vicini, a volte dalla Puglia. Venivano ospitate nelle baracche messe a disposizione del proprietario dell’oliveto e gestite dal fattore. Le olive raccolte venivano inviate ai frantoi dei proprietari.
 
a Gabbedda
Nel periodo della raccolta, c'era l'usanza da parte delle famiglie contadine di prendere una chiusa a gabbedda, un oliveto a gabella, per farsi la scorta dell’olio. Quando cominciava la raccolta tutta la famiglia era impegnata, persino i bambini. Si faceva un contratto col proprietario per la raccolta delle olive sulla base dell'apprezzo fatto da un esperto, l'apprezzaturu. Questo era in genere un fattore di campagna che veniva scelto per la competenza e il prestigio. Valutava la carica di olive che ogni albero possedeva e tirava le somme. La regola di base era che il raccoglitore doveva versare al proprietario le olive raccolte in base all’apprezzo. Raggiunta nel tempo la quantità di olive apprezzata, al raccoglitore toccava quello che restava, … se restava. Il rischio era solo del raccoglitore, riguardo al maltempo e a qualsiasi altro danno che poteva sopravvenire. Se la quota di olive previste non si raggiungeva il raccoglitore doveva pagare in denaro il padrone dell'oliveto, se non pagava finiva in pretura. Non era infrequente che il contraente per avere portato un sacco di olive al frantoio (aru trappitu) prima della fine della raccolta fosse condannato dal pretore. A volte finiva col danno e la beffa, per via del maltempo che spesso si portava via le olive con la pioggia e col vento oppure per un apprezzo sbagliato all'origine.
 
Parramari
La raccolta veniva fatta a terra. Ogni raccoglitore riempiva il suo paniere e lo versava nel sacco. Alla sera i sacchi pieni di olive venivano trasportate a dorso di asino o di mulo al frantoio del proprietario. A volte alla raccolta delle olive si usava parramari. Parramari sta per percuotere, per far cadere dai rami dell'olivo le olive mature. Bisognava in pratica munirsi di una pertica della lunghezza sufficiente per raggiungere i rami estremi altrimenti irraggiungibili.
 
Olivi tommareddi
Coloro che raccoglievano le olive erano in prevalenza donne e ragazzi. Durante la giornata passata con la schiena bassa si passavano le ore in allegria con racconti, prese in giro, cantilene e quant’altro suggeriva la loro fantasia. Tra i giovani prevalevano gli scherzi e le sfide a chi riempiva il paniere prima degli altri. I bambini, secondo la loro natura, trasformavano il tutto in gioco. Da qui la caccia a rintracciare nell'oliveto quegli olivi che avevano le olive grosse, dette in dialetto olivi tommareddi per riempire prima il paniere, naturalmente. L’olivi tommareddi, sono usate ancora oggi, in prevalenza per fare l’olivi ara caucia.
 
Nu panaru e olivi
Altra usanza: i raccoglitori, in maggioranza donne, alla sera cercavano di portarsi a casa il paniere pieno di olive. Così alla fine del lavoro razzolavano lungo i bordi degli oliveti oppure lungo le strade di campagna raccogliendo le olive cadute sul terreno al di fuori dei confini delle chiuse. Le olive venivano vendute a delle persone in paese che facevano questo piccolo commercio: le olive così raccolte venivano poi portate al frantoio e trasformate in olio da vendere al minuto in casa.
  
u Trappitu
Tutte le olive raccolte, ovviamente finivano al frantoio, in dialetto u trappitu. I grossi proprietari avevano un loro frantoio, come quello di Siciliani a San Francesco, ma ce n’erano di privati in diverse parti del paese: i più noti erano nta Vadda quello di Vincenzo Arcuri, ara Gabina quello di Nicodemo Mazzone, ara Cuccuvia quello di Luigi Arcuri, aru Rinacchiu quello di Ciccio Gangale. Il trappitu, tipico del suo tempo, era quello nta Vadda, un gattabuio dove lavorava una squadra di operai che veniva da un altro paese. Il posto era buio, caldo e profumato di olio, illuminato da lucerne ad olio poste in ogni angolo. C'era un mulo che girava in tondo con una stanga sul collo che faceva girare le macine per schiacciare le olive. Quando le olive erano ridotte in poltiglia venivano scaricate dentro le vasche di legno foderate di lamiera luccicante. Gli operai sui tavoli attorno alle vasche con le sessole riempivano i fisculi, specie di tasche tonde, che venivano impilati sulle presse. Già in questa fase l'olio colava giù dai fiscoli per effetto del peso, poi le presse si mettevano in pressione con le pompe idrauliche azionando a mano un lungo braccio di ferro. Il cilindro lucido si alzava lentamente spingendo in alto i fiscoli mentre l'olio grondava in abbondanza. L'olio veniva versato nei tini dove si separava dalle acque nere. Lo strato superficiale dell’olio veniva scolmato e versato nei contenitori mentre le acque venivano scaricate nella sentina, una specie di pozzo dal quale venivano fatte uscire dal disotto dopo l'ultima scolmatura di olio nel frattempo affiorato.
La squadra era composta da diversi uomini, c'era il capo che comandava tutti ed era lo specialista che scolmava l'olio, con un attrezzo di lamiera d'acciaio, una specie di sessa piatta, sulla superficie del grande tino. Regnava nell'ambiente un clima sereno, gli operai cantavano e scherzavano tra di loro e con tutti quelli che entravano, clienti e curiosi. Vivevano tutti là dentro fino alla fine della stagione, poi andavano via.
Nel frantoio di Arcuri in funzione alla Cacovia nel frattempo le cose erano migliorate notevolmente, nel senso che le macine erano azionate da un motore elettrico, le presse non avevano più le pompe idrauliche azionate a mano, le acque nere erano trattate con la centrifuga per il ricupero dell’olio. C'era ancora una squadra di operai che veniva dai paesi vicini con un caposquadra competente.
Oggi di frantoi a Cirò non ce ne sono più. Ce ne sono alla Marina e nei paesi vicini, forse più moderni, ma più ridotti di numero.
u Rifattu
la sansa, i noccioli frantumati delle olive, la parte solida della lavorazione per la produzione dell'olio, veniva accantonata fuori dal frantoio sotto una tettoia. Quando raggiungeva un certo volume arrivava un camion e lo portava via. Veniva usato come combustibile. Anche nei forni per il pane.