I Vostri Ricordi
A Petrina
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A Mario con infinito affetto,
la sorella Margherita
’a Petrina
Forse solo quelli dell’anagrafe e pochissimi altri ne conoscevano il vero nome, poichè a Cirò, in quegli anni, le persone che non avevano un ruolo sociale ben definito, spesso non erano individuate se non attraverso un nomignolo.
Non so perché la chiamassero in tal modo: quella Petrina era un diminutivo, un cognome storpiato dal dialetto cirotano, o un soprannome?
Non l’ho mai saputo, so soltanto che tutti la conoscevano come “a Petrina”.
Era un’anziana signorina dall’aria mite, portava i pochi capelli raccolti in una minuscola crocchia, che due forcine erano più che sufficienti a trattenere sulla nuca scarna.
Gli occhi grandi, sporgenti e spauriti, le davano un’espressione eternamente interrogativa. Ma la cosa che attirava di più la mia attenzione e la mia maliziosa curiosità di bambina, era quel grosso gozzo che ad ogni suo lieve movimento, andava, sotto la pelle sottilissima, su e giù per il collo.
Il mondo non le faceva molta compagnia, frequentava quotidianamente la chiesa e la casa di qualche famiglia accogliente, qual era quella di mia nonna Margherita.
Svolgeva dignitosamente l’attività di sarta di “aggiusti” e di vesti di poche pretese; infatti, le persone anziane erano per lo più le sue abituali clienti e, fra queste, anche mia nonna. Ma, ahimè, col tempo la sua opera si estese a qualche altro membro della famiglia, soprattutto quando la legge del riciclo s’impose per la figliolanza.
D’inverno, arrivava a casa di buon mattino e dopo una bevanda calda che la riconciliava con la vita, prendeva posto vicino al balcone, dietro ad una vecchia e rumorosa “Singer”, non senza un braciere vicino, che mia nonna provvedeva ad alimentare con la brace del camino.
Iniziava il suo certosino lavoro che terminava regolarmente a pomeriggio inoltrato; ciò le consentiva di gustare la succulenta cucina della “gna Majarita”, più curata in quei giorni per la presenza dell’ospite.
Ricordo che per l’occasione, il tavolo allungato della stanza da pranzo, si animava di stoffe, spesso di risulta, che risorgevano a miglior vita sotto forma di sottanine, pigiami, mutandine…. con la soddisfazione di tutti e con i commenti corali “a rrobba era ancora nova”.
I pantaloni a gamba lunga dei miei fratelli Ciccio e Turuzzo, che si erano un po’ collassati verso le ginocchia, subivano strategiche amputazioni.
A metamorfosi avvenuta, era Mario, l’ultimo dei miei fratelli, il beneficiario dei graziosi pantaloncini, che con supina accettazione, s’impegnava a prolungarne la vita per la terza volta.
Finché un giorno ’a Petrina raggiunse la sua crescita professionale e toccò sempre a mio fratello Mario, ormai adolescente, fare da cavia con una camicia, questa volta però con la stoffa nuova.
Per sua affermazione, al momento della misura, gli fu proposto dall’anziana stilista “figghicè, u collu comu u vò”? Chiusu o a ra sportese?”
A giudicare da una foto ancora in circolazione nelle nostre case, credo che optò per quest’ultima soluzione.
Una cosa è certa: mio fratello Mario non ne rimase molto soddisfatto, perché in seguito, e ancora oggi, ogni qualvolta un capo di vestiario non ha la sua giusta vestibilità, ama ripetere “ma chi ti l’ha cusutu? a Petrina?”.
……ricordi cirotani
“a ra sportese”: sportivo, aperto senza il primo bottone.