Fatti e Figure

Figure della Ciro’ del dopoguerra

Figure della Ciro’ del dopoguerra

Nell’immediato dopoguerra la società cirotana cominciava a vivere un cambiamento. Stava uscendo dai disastri della guerra e si avviava a riprendere un normale ritmo di vita. In quel momento storico, vengono fatti rivivere in modo semplice e immediato, alcuni personaggi, nel loro normale sviluppo di vita comune. Il loro modo di vivere e di comportarsi mette in evidenza alcuni tratti di una realtà particolare, tipica di quel momento storico.

(Le note che seguono sono la rielaborazione di una parte di quanto riportato nel libro kakoVIA, nel capitolo Fatti e Figure).

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Angiulu

Angiulu si chiamava ed era d'iddu, Angelo si chiamava ed era lui. Era il sommo dell'ironia rivolta ad un uomo che si chiamava Angelo, ma, a parere dei cirotani, in quanto a comportarsi da angelo ce ne correva. Era un personaggio che era entrato nel folclore paesano. Camionista dell'Altitalia, trapiantato a Ciro’, nell’immediato dopoguerra, non si sa per quale avventura, si vantava di essere di Brescia dove gli uomini erano dotati di due grossi coglioni. Ma sia l'aspetto sia il comportamento lasciavano intendere il contrario. La sua permanenza in paese non durò molto, a un certo punto non si vide più nel bar dove abitualmente beveva qualcosa.

Aquilina

Aquilina era il nome di una donna. La casa di una famiglia agiata, più grande rispetto ad altre, aveva l'abitazione sul piano della strada e sotto i magazzini. Nel cortile (ntu vagghiu) una casa più bassa fungeva da stalla. In una grande stanza di sotto ci abitava mastu Linardu, un uomo basso e tarchiato, quasi calvo, che era un bravo falegname, ma che soprattutto costruiva arcolai per la filatura di lana e cotone. Non si sa se il marchingegno fosse di sua invenzione, sta di fatto che era apprezzato e ne vendeva molti, soprattutto nei paesi vicini. Il momento storico era ancora favorevole all’impiego casalingo della filatura di lana e cotone per la fattura di indumenti per la famiglia. La moglie di mastu Linardu si chiamava Aquilina. Era una donnina piccola e insignificante, non più giovane, faceva la spesa e preparava da mangiare. Quel nome era particolare, certamente non frequente nella realtà cirotana.
Mastu Linardu era un uomo educato e sorridente, lavorava sempre. Con i ragazzi del luogo, quando incuriositi andavamo a vedere come lavorava al tornio, si mostrava buono e accogliente. Qualcuno diceva che era stato in prigione e che era venuto a Ciro’ per cambiare aria, non si conosceva il motivo per cui era finito in carcere, però nessuno ne parlava, visto che lavorava e si guadagnava la vita col suo lavoro. Ogni tanto mastu Linardu si assentava e si diceva che era andato a vendere gli arcolai nei paesi vicini. Poi tornava e si rimetteva al lavoro come sempre.
Un giorno arrivarono i carabinieri e arrestarono mastu Linardu, con grande meraviglia della gente. Lo portarono via ammanettato. Anche in quella occasione non aveva la faccia cattiva, sembrava sereno, come se andasse in un posto qualsiasi. Si seppe allora che mastu Linardu rubava, e nessuno se ne era accorto. Trovarono della carne salata dei maiali che aveva rubato dalle zimme poco lontano, trovarono del cuoio, e forse qualcos'altro. Da lì a poco non se ne parlò più, Aquilina se ne andò via, forse al suo paese, e di mastu Linardu restò forse solo il ricordo nelle persone che lo conobbero.

u Burreddu

Era un uomo anziano, viveva ari Campanisi, faceva il guardiano. Un vicino di casa quando ne parlava lo chiamava u Burredduzzu. Non si sa se si chiamasse Borrello di cognome. A casa sua si vedeva qualche volta. La sua vita era la campagna, e lì l'hanno trovato morto una mattina d'inverno sul suo giaciglio. Non si sa esattamente se il racconto del serpente che mangiava le uova si riferisse a lui. Lo raccontava sempre il suo vicino di casa: ari Campanisi, dove c'era la casa di campagna con orto e pollaio, un serpente andava a mangiare le uova e pare si fosse ingrassato a dovere. Il guardiano si accorse del fatto e, appostatosi, uccise il serpente e, dopo averlo scuoiato e fatto a pezzi, lo fece in umido, col pomodoro e le erbe dell'orto e lo mangiò con soddisfazione.


u Campanaru

Così era chiamato il campanile della chiesa matrice di Santa Maria de Plateis. Sutt'u campanaru, indica la strada che porta in piazza, piuttosto ripida, che mette a dura prova il fiato delle persone. In una casa proprio sotto la chiesa abitava il vecchio sagrestano, valente suonatore della campane, fascista di fede conclamata, che i ragazzini prendevamo in giro. Questo il dialogo:
Zu Linà, vincere! E lui: vinceremo!
e loro in coro: comi dui e dui fa quattro, quattro e quattro fan' ottu,
... u cul'e màmmita è chin'e botti.
E lui: figghji e ... loro, pronti a scappare, a rotta di collo, giù per la discesa.
i Carivunari
Si racconta la storia dei due carbonai che andavano al bosco per fare la carbonella. Uno dei due trova per terra un portafogli e sta per prenderlo. L'altro lo interrompe: cumpà quannu si va a carivunedda si va a carivunedda, quannu si va a portafogghi si va a portafogghi. Il portafogli restò lì, ma al ritorno non c'era più.
A Cirò il detto è rimasto. Si cita quando non c'è da distrarsi mentre si sta facendo qualcosa. Oppure quando bisogna approfittare dell'occasione favorevole, oppure quando c'è da dare del tonto a qualcuno. La carbonella era una cosa utile per il braciere di casa. I vignaioli facevano la carbonella coi sarmenti; non si buttava niente, allora.
I carbonai (carivunari) erano presenti a Cirò ancora negli anni quaranta. Venivano anche da fuori, forse perché c'erano tanti boschi. Nella zona detta i Palummeddi facevano delle cataste di legna a cono, poi ricoprivano con argilla lasciando il buco in cima e la portella in fondo dove accendere il fuoco e far entrare l'aria. La legna in questo modo si trasformava in carbone. Dal paese si vedevano i fumi per diversi giorni finché la legna non era tutta bruciata.
I due carbonai venivano in paese alla sera in una cantina a mangiare e bere il vino. Mangiavano le specialità della cantina: gran piatti di peperoni salati fritti, pane di grano duro, porzioni di suzu fatto dalla padrona di casa. Poi giocavano a carte con gli altri frequentatori, col vino a patrunu e suttu. Il padrone disponeva del vino ma era soggetto al consenso del sotto per offrirlo. Il massimo per lui era che il sotto restasse a bocca asciutta, per il sotto che il padrone fosse costretto a berselo tutto, e ubriacarsi. Tra i due, padrone e sotto, di solito il sotto resta a bocca asciutta, con le conseguenze del caso.

Ciccillu, Ciurcillu

Ciccillo abitava sutt'u Campanaru. Era un ragazzo che stava tra i ragazzi  nta Cuccuvia e giocava a tutti i giochi. Quando c'era la vendemmia o la raccolta delle olive lui lavorava. Aveva il dono dello scherzo e della burla. Una volta andò a raccogliere l'uva in una vigna del Vallo in compagnia del padrone e della sua famiglia e la giornata passò ridendo e scherzando. Al ritorno fece una gara con un compagno a chi faceva la cacata più lunga stando su un muretto. Durante il giorno avevano mangiato uva nera adatta solo per fare il vino e che provoca la diarrea. Si tirarono giù le brache e diedero la stura. Un liquido color del vino venne fuori tracciando una riga per terra. E' facile capire chi vinse.
Quanto al soprannome di Ciurcillo è una trasposizione del nome di Churchill, molto noto durante la guerra e subito dopo. Certi nomi inseriti nel linguaggio corrente erano sottoposti a nuovi significati.

zu Ciscu
Zu Ciscu aveva una bottega in piazza in cui vendeva sale e tabacchi. Era un uomo anziano, portava sempre gli occhiali sul naso, il cappello in testa e fumava il sigaro toscano. Aveva anche una chiusa e olivi, nella zona Cacovia, dove i ragazzi andavano ad armare le tagliole per catturare i merli e i fringuelli. Zu Ciscu era noto per la sua arguzia. In tempi magri del dopoguerra i giovani andavano a chiedere il tabacco a credito e lui ribadiva il suo rifiuto, ripetendo il suo motto: ... e torn'e lìmila. La battuta rimase nel linguaggio cirotano: ... e torn'e lìmila, fa zu Ciscu, per ribadire un rifiuto a una richiesta insistente.

a Ciuccia vecchia

La porta e Scezzari, nella parte alta del paese, che si apriva su un autentico strapiombo, fa parte di una storia. Di un episodio che è stato raccontato, non si sa più da chi. Il generale Siciliani, celebre per la stesura del Proclama della Vittoria di Armando Diaz, cirotano di nascita della nota famiglia Siciliani, amava accogliere i cirotani che andavano a trovarlo a Roma, dove abitava, raccontando loro la storiella della ciuccia vecchia. Nel rione della Bandiera c'era una stalla con un'asina vecchia che, infastidita da un asinello focoso, uscì dalla stalla correndo verso u fumeragghju e Scezziri. L'asinello correndo dietro la ciuccia precipitò nel fumeragghju. Morale: il generale disse: voi giovani state attenti alle ciucce vecchie.

Gatanu da lucia

Gaetano, l'elettricista, era un uomo mite e sempre disponibile. Qualunque cosa succedesse nelle case o alle linee elettriche lui arrivava con la scala in spalla e si arrampicava per aggiustare il guasto. Si ricordano le acrobazie che faceva quando doveva infilare un altro pezzo di scala per andare più in alto: puntava il piede contro il muro, in modo da staccare la scala dal muro, quindi infilava l'altro pezzo di scala, che aveva in spalla, sulla prima e il gioco era fatto. Sembra che una volta sia caduto dalle scale, pare senza gravi conseguenze. La cosa più interessante era poi quando calzava i ramponi e si arrampicava sui pali della luce per collegare i fili.
La sua persona è legata alle vicende dell'illuminazione del paese. La società che in principio gestiva la fornitura dell'elettricità, era una ditta privata che era proprietaria degli impianti e delle linee. La corrente veniva immessa in rete dalle sei di sera fino alla mattina. Ma ogni qualvolta c'era un temporale o la pioggia o una raffica di vento, cose che a Cirò erano molto frequenti, la corrente spariva e si rimaneva al buio. Si diceva che le linee elettriche che correvano sui muri esterni alle case erano ormai vecchie da buttare e i pali che sostenevano i fili, che attraversavano le periferie, cadevano anche con una minima raffica di vento. La norma quindi era la mancanza di elettricità quasi continua. Nel dopoguerra le cose cambiarono, ma ci volle del tempo. Intanto si disse che il gestore voleva approfittare della situazione vendendo a caro prezzo le sue linee fatiscenti. Con un nuovo gestore si rinnovarono le linee, la corrente si diffuse in tutte le case per tutto il giorno. Restava sempre però una persona sola a gestire in paese la manutenzione delle linee. Col tempo altre persone vennero da fuori a prendere il posto di Gaetano, ma non restavano molto tempo in paese.

i Germanesi

Così erano indicati gli emigranti in Germania. I giovani che tornavano  dalla Germania, sfoggiavano i bei vestiti, a volte anche le macchine, e una certa aria di spavalderia. In una Cirò rimasta chiusa nei suoi modi di vivere, questo modo di comportarsi, da parte di alcuni, finì per considerare i giovani emigranti persone presuntuose e maleducate. Quei giovani non erano più i ragazzi del giorno prima, ignoranti e sottomessi, magari ossequiosi nei confronti di chi stava in piazza. Ma la risposta più giusta era che quei ragazzi erano la parte più viva del paese, il loro comportamento era la riconquista della loro dignità perduta.
L'ondata di emigrazione in Germania, e in generale in tutta Europa, che ha coinvolto i Meridionali nel dopoguerra, storicamente è stata la seconda dopo quella per gli Stati Uniti degli anni venti del secolo scorso. Qualcuno ha sostenuto che i Meridionali hanno ricostruito l'Europa dopo la seconda guerra mondiale. Ma un tale riconoscimento in termini politici non è mai avvenuto, tanto che ancora nel Duemila si parla, ancora, di una massiccia emigrazione soprattutto di forza lavoro qualificata. Un ulteriore contributo del Meridione alla tanto riconoscente Italia del Nord.

U locu
Sotto la Cacovia c'era u locu e Vilardu, che era costituito da una casa, un uliveto e una folta siepe di fichidindia. C'era anche un pezzo di orto e diversi alberi da frutto tra i quali un albero di more. Nella casa ci abitava una famiglia, Chiddi du locu, che fungevano da guardiani, i proprietari abitavano in paese ma erano sempre lì a lavorare. Per i ragazzi del luogo era terreno di gioco, per le tagliole per catturare i merli, mangiare i frutti, scorazzare tra gli olivi, andare a caccia di nidi. Ma la particolarità del locu era il carattere del padrone, che era un uomo burbero, che parlava un linguaggio misto di italiano e dialetto molto particolare. Una delle espressioni più note del suo colorito linguaggio è stata: scendi del mio amore ingrato carcarazzo, che tradotto in italiano significa: scendi del mio albero di more ingrata gazza. L'intimazione era rivolta ad un ragazzo che arrampicato sull’albero raccoglieva le sue more. Il carcarazzo c'entra in quanto i maggiori gustatori delle more mature sono appunto le gazze.

Jacch'tu, veni cca
A Cirò non c'è una vera comunità di albanesi, ci sono alcune persone che provengono da San Nicola dell'Alto, Carfizzi, Pallagorio, paesi a nord di Ciro’, che facevano parte del circondario amministrativo (catasto, registro, pretura, carceri). Alla scuola media un ragazzo che proveniva da San Nicola dell'Alto aveva ancora l'accento tipico dei gghiegghj, e per gli altri ragazzi era jacc'tu, che significa poi vieni qua. Così un giorno finì che un  professore lo chiamò alla lavagna dicendogli: jacch'tu, vieni qua!

a Màmmisa
A Ciro’ è molto nota la vicenda.  Pare che da ragazzi, due fratelli e altri compagni andassero a caccia di piccioni sulle timpe. Quella volta andarono al Cozzo dalla parte dei Campanisi dove c'erano i nidi dei colombi selvatici. Ben imbragato con le corde uno dei due fratelli si calò giù dalla timpa, sostenuto dal fratello e da altri. Arrivato davanti alle buche dei nidi cominciò a estrarre i piccioncini e a metterli nelle tasche della giacca. Un urlo di soddisfazione si sentì quando estrasse dal nido la colomba: aiu piati a mammisa! Gli altri incuriositi accorsero a vedere e mollarono la presa. Naturalmente volò dabbasso e si ruppe una gamba. Da questa vicenda nacque il detto cirotano ha pijati a mammisa.
Altra vicenda. Un bel gruppetto di ragazzi decide di andare a caccia di ciavuli ara Timpa e Fraccunu che era un muro enorme costruito per sostenere le case di sopra e che era costellato di buchi (i buchi da nnaita), nei quali facevano i nidi le ciavole. Uno dei ragazzi decise di calarsi, gli altri si levarono le giacche con le quali il ragazzo si imbottì le parti dove passavano le corde dell'imbracatura e le altre le misero sotto le corde perché scorrendo non si logorassero. Dopo le legature, munito di un bastone alla cui estremità era legata una forchetta piegata a rampino, cominciò a calarsi mentre i ragazzi tenevamo saldi le corde. Si fermo’ al primo buco poi a un secondo, cercando di tirare fuori i piccioni delle ciavole, e quando fu soddisfatto chiese di tirarlo su. Aveva preso diversi piccioncini e tutti erano soddisfatti della caccia. Andò tutto bene, ma a ripensarci ci si può chiedere se il rischio valesse la candela.
Il ragazzo in questione era un tipo risoluto. Quando dissero che era morto i compagni di quella avventura ci restarono molto male: è morto in Brasile, dove era emigrato con la famiglia, pare a un distributore di benzina, dove si era recato con la sua motocicletta. La moto aveva preso fuoco e lui nel tentativo di spegnerla ci ha rimesso la vita.


Mavilu

E' la storia di un personaggio cirotano, di aspetto robusto, poco parlatore, dai modi decisi. Era un agricoltore esperto nella cura delle vigne, esperto potatore delle viti. Appunto con l'arcigghjunu, l'attrezzo per la potatura, era tornato dalla campagna, e a Mavilu, piazza Mavilia, incrocia il padrone dell'esattoria, appena arrivato con la sua automobile, un uomo ben vestito e curato nella persona, lontano dall'aspetto ruvido dei contadini. Questo forse ha fatto saltare la mosca al naso al nostro, che l'apostrofò duramente per via delle tasse esose che era costretto a pagare per quel po' di terra che possedeva. L'esattore si è infuriato, e ha minacciato di denunciarlo. La denuncia ai carabinieri era di minaccia a mano armata, per via dell'arciglione che aveva a mano. Lui fu arrestato, condannato fece diversi anni di galera.

a Melissisa

A Melissisa era una donna che abitava nella strada di sotto per San Giuseppe, nta vinedda. A suo tempo aveva lasciato il suo paese, Melissa, probabilmente per ragioni di "onore", inteso col significato adatto ai tempi, cioè aveva avuto una figlia da qualcuno. Quando era venuta ad abitare in quella via aveva diversi figli. A quell'epoca, durante e dopo la guerra, soffriva della miseria della situazione generale, ma anche sua particolare. Era stata scacciata dalla casa dove era a servizio da tanti anni, amante del padrone, con diversi figli del padrone, senza risorse. I figli li mandava a lavorare, fin da piccoli. Uno dei suoi figli andava nel bosco a far legna e portava a casa due fascine anziché una, perché durante il percorso ne lasciava una e tornava indietro a prendere l'altra, così fino a casa. Aveva accettato la sua sorte, e si è concessa degli amanti, da uno dei quali ha avuto un altro figlio. Alla fine ebbe qualche soddisfazione: i figli vennero riconosciuti dal padre ed ebbero l'eredità che a loro spettava. L'ultimo fu richiamato dal padre che nel frattempo era riuscito a emigrare in America.

il Pallinino

A Ciro’ c'era una officina dove si aggiustavano le automobili. Quella di Astorino. Il capo dell'officina era un uomo alto e magro, di poche parole e godeva di un certo prestigio. Una scritta all'interno dell'officina diceva: Baci e fiori sulle mani callose. Un inno al lavoro.
Dopo la guerra a volte capitavano a Cirò delle persone dell'Altitalia, tra queste un giovane di media statura, bruno riccioluto, che vestiva in modo decente e aveva l'aspetto "pulito". Faceva "il battilamiera" un mestiere allora sconosciuto, il carrozziere, quello che sa rimettere a nuovo una carrozzeria sfasciata. Sapeva giocare al bigliardo e stare in compagnia, sfoderava un linguaggio misto italiano e dialetto cirotano con qualche battuta umoristica.
I ragazzi che frequentavano il bigliardo, dove oltre al bar si giocava a carte, erano attorno al tappeto verde a guardare e a parteggiare, a volte col fiato sospeso, quando si trattava di tiri difficili dove il "campione" si giocava la reputazione.
Tra le tante cose che il carrozziere diceva chiamava il pallino il pallinino, facendo in pratica il diminutivo del diminutivo. Il soggetto era così diventato un personaggio agli occhi dei cirotani, in quanto era uno che si guadagnava lo stipendio, si presentava ben vestito e ben pettinato con la brillantina. Rispetto al cirotano medio, contadino malpagato, malvestito e a volte piuttosto rustico, faceva sicuramente bella figura e infatti gli si attribuivano anche delle fidanzate tra le ragazze bene del paese. Era opinione comune che ormai si sarebbe sistemato a Cirò. Invece un bel giorno andò via e si disse che era tornato al suo paese. Lo si rivide in paese tempo dopo con una donna, che si disse essere sua moglie. L'impressione che se ne è avuta non era la stessa che se ne aveva allora. L'incanto del pallinino era svanito.

u Paraccu

Il paracqua è un ricordo particolare. Il paraccu era l'ombrello di un uomo che faceva il pastore di buoi con Siciliani, dai quali, pare ricevesse in cambio soltanto prodotti in natura. Quando usciva di casa alla mattina presto aveva indosso una cerata col cappuccio e appeso al cappuccio un grosso ombrello di stoffa colorata. L'ombrello gli ciondolava dietro la schiena. Era una persona particolare, portava all'occhio destro un monocolo col vetro di colore scuro che gli nascondeva l'occhio. Pare che avesse l'occhio rovinato da una spina, e che non era da mostrare in pubblico. Era un uomo alto e magro sempre con la coppola in testa, uno di quegli uomini buoni e tranquilli che fanno il loro lavoro e basta. Sua moglie, al contrario era piccola e vivace, e allevava numerosi figli.

u Paricu

Il parroco don Quintino Liotti, oltre che parroco di San Menna, era maestro elementare da più generazioni. E' andato in pensione vecchissimo, ha avuto la medaglia d'oro per l'insegnamento. Era un uomo alto e magro, non gli mancava il sorriso sardonico e la battuta ironica. Sempre disponibile a dare consigli, sensibile e discreto. Molto legato alla sua famiglia. Di parroci ce n'erano altri due, quello di Santa Maria, la Chiesa Madre, Benvenuti e quello di San Giovanni Palmieri.  Erano assieme nella Chiesa Madre vestiti con i paramenti sacri nelle funzioni Natalizie e  Pasquali.

u Pitittu

Si racconta a Ciro’ la storia del musicante ospite di una famiglia contadina. Come usanza allora ogni famiglia invitava un musicante quando veniva la banda per la festa del santo. Il musicante della storia si aspettava un lauto pranzo e, vista una abbondante insalata di pomodori portata in tavola dalla padrona di casa, disse che era una bella cosa per aprire l'appetito. Si sentì allora rispondere: chissa tu rapa e chissa tu chiuja.
Non andò meglio al prete di campagna invitato nel paese vicino, secondo l'usanza, a fare le prediche per la festa della Madonna. I suoi parrocchiani da buoni contadini gli regalavano una buona scorta di fave, per cui si aspettava dai suoi ospiti qualcosa di diverso. Invece si vide presentare per cena un bel piatto fumante di fave fratte. La sua delusione si espresse nell'omelia del giorno dopo: Maledetta la favus che pure in casa d'avus mi prosegus. In perfetto latino maccheronico. La fame in quei tempi non aveva confini.


Ppuppu

Il vecchio farmacista di Ciro’ aveva la farmacia in piazza, frequentata oltre che dai clienti anche dai professionisti del paese, sicché si poteva considerare un cenacolo di intellettuali. Era un uomo anziano, di corporatura pesante, professionista stimato per la sua scienza. La farmacia era fornita di vetrine piene di vasi e vasetti contenenti i materiali di base per l'elaborazione dei suoi preparati. Vederlo lavorare era un vero spettacolo per le persone che andavano a prendere le medicine per se o per altri di casa. Poteva capitare di assistere alla preparazione di uno sciroppo, per esempio, che doveva contenere del ferro per la cura dell’anemia, frequente nei ragazzi in via di sviluppo. Mescolava diversi composti su un tagliere di marmo con una spatola, faceva bollire delle erbe in un contenitore di vetro su un fornelletto con lo stoppino con la fiamma, metteva infine tutto assieme in una bottiglia mescolando energicamente fino ad ottenere un liquido scuro. Un altro episodio: la preparazione di una pomata a base di zolfo che serviva per ungere le mani di chi aveva preso la scabbia, molto diffusa tra i bambini. Mescolanza di varie sostanze sul taglierino di marmo con la spatola poi il tutto in un vasetto di vetro.
Il nomignolo riguardava il fatto che il dottore aveva un tic nervoso: mentre lavorava spesso muoveva le labbra come per mandare via un moscerino fastidioso, facendo quel caratteristico rumore: ppu-ppu. Un altro particolare che si ricorda era il fatto che lui quando tornava a casa alla sera, poiché non c'era illuminazione per le strade, usava una pila elettrica a dinamo, quella che si preme ripetutamente la levetta laterale per caricare la batteria e illuminare la strada. Manovrando la levetta si faceva un rumore particolare. Così quando passava la gente sapeva che stava passando ppu-ppù.

Puriverata

Era il soprannome di un cirotano, di una certa età, cacciatore, sempre coi cani appresso. Di lui si ricorda di quella volta che, parlando di caccia nella bottega del calzolaio, raccontò l'episodio della pecora. Rincasava dalla caccia, in una fossa trova una pecora smarrita che non riusciva a risalire. Lui approfitta dell'occasione, estrae il coltello, sgozza la povera bestia e se la porta a casa. Candidamente disse: com'era mansa! Com'era mansueta!
Raccioppu

I raccioppi sono i grappoli di uva che rimangono sulle viti dopo la vendemmia perché ancora acerbi. Era consuetudine che fossero raccolti poi da qualcuno che andava a spigolare. Ad un ragazzo è stato dato questo soprannome, raccioppu. Il motivo non è chiaro, e spesso è così nell'attribuire i soprannomi, ma qualcosa fa supporre che il legame, tra il grappolo d'uva ritardatario e il ragazzo, sia il bianco e rosso del suo viso, l'espressione ridente inconsapevole che gli si legge in faccia, e il colore rosso degli acini d'uva ancora semiacerbi.


a Rocca

A Ciro’ a Rocca era una vecchia cieca, che, forse per questo, aveva un pessimo carattere. Anche perché era soggetta a continue angherie da parte dei ragazzini e forse anche dai grandi. Atteggiamenti riconducibili, in una società arcaica, all'esclusione di chi per sua sfortuna ha un difetto grave. I ragazzini andavano sotto la sua casa, che si trovava in un gattabuio in una traversa della strada che va alla chiesa di San Menna, e gridavano a squarciagola il ritornello:
Rocca,
ti cricca o ti ncrocca,
si si vota ra tramuntana,
tutt'i pulici ara suttana,
finché non si affacciava urlando improperi e bestemmie. Una volta tirò dietro ai ragazzi un tripode arroventato mentre scappavano per le scale.
Altri episodi riguardano scherzi fatti dagli adulti. Si approfittava del passaggio della vecchia vicino a qualcuno e si gridava minila mo' chi l'ha davanti, al che la vecchia alzava il bastone e sferrava bastonate. Alla cieca, ovviamente. L'episodio più conosciuto ha riguardato un personaggio di rilievo del paese, accaduto in chiesa mentre si celebrava una funzione religiosa. Hanno portato la vecchia vicino alla persona citata, l'hanno incitata col solito grido e il bastone è calato sulla testa del malcapitato. Forse una vendetta. O forse, semplicemente, come accadeva a volte nella mentalità cirotana, una profanazione della rispettabilità della persona.

na Sleppa

Non si e mai capito bene il significato, ma è chiaro che si tratta di una parola che si presta a diverse applicazioni. Una di queste è sicuramente quella che ne faceva un calzolaio di Ciro’. Quest'uomo era tra i tanti giovani del paese che fecero la guerra, la seconda mondiale. Dopo il fronte, la prima linea, le trincee, la prigionia, finalmente torna a casa. Passa alcuni mesi per riprendere una vita normale in famiglia, poi riprende a fare il suo mestiere di calzolaio. Amava chiacchierare con il senso dell'umorismo e per questo era stimato. Piano piano, comincia a frequentare con una certa regolarità la bottega degli alimentari vicina alla sua bottega. La mattina si faceva il panino con la mortadella e ci beveva sopra qualcosa per mandare giù il panino e il freddo della tramontana. La cosa ha continuato, lui ci prendeva soddisfazione tanto che rinfrancato diceva che ci aveva messo su na sleppa. La sleppa era diventata una sorsata di spirito. La cosa andò avanti nel tempo tra una sleppa e l'altra. Una volta in piazza si avvicinò a un gruppo di amici chiedendo cento lire. Qualcuno disse che ormai aveva perso ogni dignità.


Vuccugghierisa

A Vuccugghierisa era una vecchia che abitava alla Cacovia in una casa di fronte alla casa di Arcuri. Aveva una figlia giovane in casa e un'altra sposata. La casa era a pianterreno, di due stanze, e la porta di ingresso dava subito nella stanza con il focolare. Il camino sbucava sulla lamia, alla lamia si poteva accedere facilmente da dietro. Era un luogo privilegiato per i ragazzi per giocare, con gran dispetto della padrona di casa che si vedeva arrivare dal camino, magari anche quando c'era la pentola sul fuoco o la pignata dei fagioli accostata ai tizzoni, ogni genere di oggetti, dalle pietre alle lucertole alle vipere nere vive e morte.
Era una donna buona, nessuna violenza o ritorsione nei confronti dei ragazzi, se non le urla e le bestemmie di rito, come si usava in questi casi. Qualcuno ricorda un episodio particolare. Alcuni ragazzi stavamo giocando sul lisciu e Arcuri e la Vuccugghierisa era seduta sul gradino della porta di fronte, all'ombra del pomeriggio. Con le gambe spalancate, si passava il dito sulle labbra umide, si infilava la mano sotto la sua veste nera e cercava le pulci tra i peli. Era senza mutande e i ragazzi ridevamo non proprio sotto i baffi. La signora della casa di fronte, uscita sulla porta, si accorge del fatto e la richiama coloritamente. Ammuccia ammuccia ca para tutta, nascondi nascondi che tutto si vede.

vi Zzampu sutt'i pedi

Passava una persona per la Cacovia, quasi sotto l'arco dell’antica porta c'erano dei ragazzi, forse quattro o cinque, all'impiedi o appoggiati al muretto. La persona citata passa in mezzo, appena di spalle parte un fischio, la persona si gira e guarda in modo "cattivo" i ragazzi, come a dire: sbagliate mira. Si riavvia, parte un altro fischio. Adesso basta! Con chi credete di avere a che fare? esclama la persona. Credendo fosse finita, si riavvia, parte un altro fischio. Si rivolta inviperito, e con voce alterata, ormai fuori controllo, esclama: se non la smettete vi zampu sutt'i pedi. I ragazzi, immobili, come non fossero loro, non si scambiano neanche l'occhiata di complicità. Una persona che sopraggiunse chiese a una signora che si era affacciata il perché. La risposta: è uno che beve.